Se i samoani si mangiano gli ultimi manumea, il loro (rarissimo) simbolo nazionale

Nello stato isolano del Pacifico, il tentativo di salvare i rarissimi uccelli si scontra con la tradizione che vuole i piccioni sulle tavole imbandite, come segno di distinzione e rispetto.

Pubblicato su “The Atlantic” il 19 marzo 2020, di J.B. MacKinnon ©

Pubblicato da La Stampa il 18 Aprile 2020: https://www.lastampa.it/tuttogreen/2020/04/18/news/se-i-samoani-si-mangiano-gli-ultimi-manumea-il-loro-rarissimo-uccello-nazionale-1.38728698

E’ chiaro che iniziare la ricerca di uno degli uccelli più rari al mondo proprio nel periodo considerato più propizio per la caccia agli uccelli nello stato isolano delle Samoa, non è una grande idea. È la vigilia del “White Sunday”, la Domenica Bianca, la più importante festa religiosa nazionale annuale durante la quale una moltitudine di uccelli selvatici vengono mangiati come cibo prelibato tradizionale. I fucili da caccia calibro 12 hanno risuonato nelle foreste per giorni. In questa vigilia, anche gli uccelli più comuni si nascondono.

Sono con Gianluca Serra, ecologista e conservazionista italiano specializzato in creature a rischio estinzione, e per una settimana andremo alla ricerca di un uccello che probabilmente non supera i 200 esemplari. Iniziamo su un arioso crinale della giungla, sopra un villaggio chiamato Uafato, in un capanno progettato per l’osservazione dell’avifauna. Uafato, un villaggio remoto per gli standard di Upolu, la più popolosa delle due isole principali di Samoa, ha in teoria acconsentito a vietare la caccia nella sua foresta . Gli uccelli non sembrano esserne consapevoli. A parte i venti dell'oceano che periodicamente trascinano nella foresta rovesci così pesanti da scatenare immediati raffreddori, il paesaggio è straordinariamente fermo e quieto.

Vorrei dirvi il nome dell'uccello che stiamo inseguendo, ma anche questo non è facile. In samoano, si chiama manumea (che può significare "uccello rosso" o "uccello prezioso") o manuma ("uccello timido"). Il primo rapporto scientifico sulla specie fu pubblicato nel 1845, e l'uccello divenne presto noto agli anglofoni come il piccione dal becco dentato, a causa della mandibola che presenta bizzarre dentellature a sega. I primi naturalisti proposero anche nomi come "dodo pigeon" e "dodlet", perché assomiglia a una versione in miniatura del dodo, quell'uccello notoriamente incapace di volare estintosi nel 1600. Poiché test genetici hanno recentemente dimostrato che il manumea è davvero imparentato con il dodo, e poiché anch'esso è vicino all'estinzione, alcuni lo chiamano di nuovo "il piccolo dodo”.

Facciamo così, chiamiamolo manumea. Quel che è certo, a prescindere dal nome, è che è un piccione dalle scure tonalità blu-verdi e marroni, abbastanza grosso da poter essere scambiato per un pollo, con un sovradimensionato becco uncinato del colore dell’arcobaleno, come se avesse l’ambizione di essere scambiato per un pappagallo. Vive soltanto nell’arcipelago delle Samoa, dove è considerato il simbolo nazionale, la sua immagine è rinvenibile sulle banconote nazionali e su grandi murales sparsi nella capitale Apia. Quasi nessun samoano lo ha mai visto dal vivo.

Ironicamente, nelle rare occasioni in cui il manumea si rivela, è un volatile con una sua presenza. Già osservatori ottocenteschi lo descrissero come “bello”, “solenne” e “speciale”. Serra lo ha potuto osservare chiaramente almeno una volta e subito dopo ne ha fatto uno schizzo. Il suo disegno rivela uno spettro alato di colore blu elettrico che ricorda più un angelo o un pegaso che una creatura terrestre. Lo vide dallo stesso capanno sopra il villaggio di Uafato dove ci troviamo oggi.

Dopo cinque ore e mezzo stiamo ancora - con buona pace di Samuel Beckett - “aspettando Dodot”. “E’ una specie fantasma”, dice Serra, i cui capelli argentati tirati indietro ed il viso perpetuamente bruciato dal sole lo fanno sembrare un console europeo tropicalizzato. “Come possiamo conservare qualcosa che non si può vedere?”.

Ci arrendiamo e scendiamo a Uafato, la cui sabbia bianca e palme sono sovrastati da una cascata alta e roboante. Le operazioni di cucina per la festa del White Sunday sono già in corso e l’aria odora dei malli bruciati delle noci di cocco.

“Dov’è il manumea?” Serra domanda ad un ragazzino sghignazzante di 10 anni. Dandogli una pacca sullo stomaco. “Sono tutti già nelle pance dei samoani?”

E’ una battuta dal sapore dark. Quando una specie si riduce a livelli così bassi, i cacciatori possono facilmente fare fuori gli ultimi individui. Per decenni, sia i conservazionisti che gli economisti, come pure la maggioranza dell’opinione pubblica, hanno attribuito la responsabilità delle specie in via di estinzione ai disperati del mondo, cioè ai poveri affamati; quelli per cui riempire lo stomaco vuoto costituisce una priorità, certamente più impellente che non conservare la biodiversità. Ma a Samoa è venuta alla luce una storia più complicata e sconveniente, una storia che, a sorpresa, tira in causa invece la sfera dei benestanti. Noi esseri umani non stiamo più solo mangiando le specie a rischio di estinzione. Le stiamo letteralmente consumando.

Il giorno dopo, io e Serra siamo in cima ad un’antica struttura nella giungla di Savaii, la più larga e selvaggia delle due isole principali di Samoa. E’ una località di frontiera. Siamo appena all’interno della costa estrema occidentale del paese, uno sperone di roccia nera che sembra discendere a gradoni dentro l’oceano. Nella tradizione polinesiana, questo luogo si chiama O Le Fāfā, cioè il varco di accesso all’aldilà sottomarino.

La costruzione a pianta piramidale sulla cui sommità siamo saliti fa parte di una rete di una dozzina sparse nelle foreste di Samoa. Il cumulo di rocce nere vulcaniche non è piccolo: alla sua base è più largo di un campo da baseball e alto quanto un piano di un palazzo. La giungla lo ha quasi ingoiato del tutto ma otto lobi arrotondati che si dipartono dalla piattaforma centrale sono ancora riconoscibili. La misteriosa struttura è conosciuta come il “cumulo a stella” ed era usato tradizionalmente, almeno a periodi, per la caccia al piccione.

Quando gli antenati dei samoani attuali sbarcarono su queste sponde circa 3000 anni fa le isole erano abitate solo da creature capaci di nuotare, volare o sopravvivere alla deriva su zattere flottanti (fatte di detriti e createsi in seguito ai cicloni che spazzano regolarmente gli arcipelaghi oceanici, ndr). Tra queste creature i piccioni, incluso il manumea, erano certamente le prede selvatiche di una certa taglia a portata di mano e sufficientemente gustose. Sotto la stretta gerarchia del sistema sociale samoano, la caccia al manumea era riservata ai capi, nello stesso modo in cui la caccia al cervo era un tempo riservata agli aristocratici in Inghilterra.

Quando un villaggio ospitava una sessione di caccia al piccione, a ciascuno dei capi invitati, o matai, si ritiene che fosse assegnato uno dei lobi del cumulo a stella per partecipare ad una gara finalizzata a catturare i piccioni per mezzo di reti appese a lunghe canne. Queste gare di caccia erano un rituale divino, uno sport con tanto di spettatori; un pretesto per le comunità di raccogliersi e festeggiare. Rituali che sparirono rapidamente sotto l’influenza dei missionari europei nei primi dell’Ottocento. O meglio, si trasformarono.

Nel 2014, il bureau statistico di Samoa completò uno studio sulla dieta degli abitanti dell’arcipelago oceanico. Questa piccola nazione si situa al terzo posto nella classifica mondiale dell’obesità come ha rivelato questo accurato sondaggio realizzato in collaborazione con la FAO dell’ONU. Quasi il 10% delle famiglie contattate, infatti, consegnarono descrizioni dettagliate circa la loro dieta quotidiana.

Rebecca Stirnemann, una ecologista neozelandese che ha vissuto a Samoa, intravide in questo sondaggio l’opportunità di capire chi, esattamente, stesse mangiando la fauna samoana. Non si aspettava di scoprire che la gente si mangiava i manumea. Cacciatori specializzati nella caccia al manumea si potevano ancora rintracciare fino agli anni Ottanta, ma subito dopo la specie divenne troppo rara per continuare ad essere ritenuta un bersaglio papabile. D’altro canto, Stirnemann, sospettava che i cacciatori che sostenevano di avere come bersaglio la comune specie del piccione imperiale del Pacifico, nota localmente come lupe, uccidessero al contempo anche il manumea in maniera opportunistica o semplicemente per errore. Interviste condotte dalla Stirnemann ed il ministero dell’ambiente samoano con i cacciatori rivelarono che più di un quarto aveva sparato a vari manumea “per errore” nel corso della loro carriera. Anche Serra, focalizzando le interviste su gruppi di cacciatori selezionati per la loro affidabilità, rivelò che il 41% di loro aveva sparato ad un manumea almeno una volta.

“Se senti il richiamo di un piccione e spari verso la volta della foresta, puoi atterrare entrambe le specie”, Stirnemann mi spiegò. Sperava che i dati sulla dieta rivelassero quanti lupe i samoani si mangiano, come misura della minaccia che la caccia costituisce per il manumea. Assecondando l’opinione comune, assunse che molti dei piccioni cacciati finissero nelle pentole degli abitanti più indigenti - il risultato cioè della caccia di sussistenza che minaccia la sopravvivenza della fauna a giro per il mondo.

Analizzando i risultati della ricerca sulla dieta delle famiglie, Stirnemann capì che i samoani, nel loro insieme, mangiavano più piccioni di quello che si fosse mai immaginato: almeno 22,000 uccelli all’anno. Che nell’insieme costituiscono 22,000 probabilità di sparare al manumea all’anno. Ma i poveri non avevano mangiato la maggior parte del malloppo: quasi il 45% di questo carniere era stato consumato nelle case del 10% dei rappresentanti più abbienti della società samoana. Concentrandosi d’altra parte sul 40% delle famiglie più benestanti, la percentuale in questione schizzava a un incredibile 80%.

“Fummo tutti sorpresi dai risultati”, rivelò la Stirnemann. “La gente non era consapevole dell’impatto che produceva sulle popolazioni di piccioni, al netto degli effetti specifici sul manumea. E non c’era neanche consapevolezza su chi era che realmente contribuiva maggiormente a questo problema.”

Come la Stirnemann presto comprese, questi risultati si andavano aggiungendo ad un corpo crescente di ricerca che stava sconvolgendo le assunzioni su chi mangia le specie minacciate di estinzione e perché. Lo stesso anno del sondaggio fatto a Samoa, una ricerca pionieristica condotta nell’Amazzonia brasiliana ha dimostrato che la gente mangia più fauna selvatica, e non meno, nel passaggio dalla povertà rurale all’inurbamento. Le famiglie più povere cacciavano si ancora selvaggina da portare come cibo in tavola, ma anche per venderla alle famiglie più abbienti. I ricchi sono risultati i maggiori consumatori di specie minacciate e di “prestigio” - incluso una specie di scimmia, un grosso roditore noto come paca di pianura e un pesce che pesa quanto un pastore tedesco.

Siccome erano soprattutto i poveri delle zone rurali che in passato uccidevano selvaggina per sussistenza o per uso come medicina tradizionale, sia i conservazionisti che gli esperti di sviluppo sostenibile avevano previsto che la gente, una volta sollevata dalla povertà, cominciasse a rivolgersi verso prodotti alimentari di origine industriale e verso medicine vendute in farmacie - come si fa nella maggior parte dell’Occidente.

Ma altri risultanti preoccupanti hanno continuato a filtrare. Nelle città della foresta pluviale peruviana i consumatori più accaniti di carne di origine selvatica si sono dimostrati essere il personale militare in visita, i manager di industrie e i turisti. In Vietnam, il corno del rinoceronte è ancora usato nella medicina tradizionale ma l’unico malanno da curare sembra essere l’“affluenza”: è stato infatti accertato che la metà degli utilizzatori avevano da “curare” sbornie, mentre un altro terzo doveva “disintossicare” il corpo; in alcuni casi mescolando la polvere del corno col vino per creare un cocktail descritto negli articoli dei giornali locali come “il drink alcolico dei milionari”.

Simile storia in Cina, dove i governativi sospettano che il coronavirus sia passato alla gente da un animale selvatico ancora non identificato. Se vi immaginate gente indigente cinese che si nutre di qualsiasi cosa viva su cui mettere le mani, siete fuori strada. Nella Cina di oggi la carne di selvaggina è un prodotto da gourmet e altri prodotti animali, come pellicce e medicina tradizionale, sono beni di lusso: il commercio è aumentato in maniera esponenziale, invece che diminuire, in parallelo alla crescita della ricchezza nazionale. (In Febbraio, la Cina ha vietato la vendita di carne di origine selvatica, con una scappatoia però per i prodotti di medicina tradizionale, ma la maggior parte del commercio si era già inabissato per vie illegali.) Perfino in un paese povero come lo Zimbabwe, i ricercatori hanno scoperto che i cacciatori mangiano solo un quarto della carne che si procurano in natura, vendendo il resto a “coloro che hanno uno stipendio” che in generale sono i “più attempati e affluenti” della società.

CITES, il trattato internazionale che regolamenta il traffico internazionale di piante e animali selvatici, si è aggiornato su questa questione a partire dal 2014. “Stiamo assistendo sgomenti ad una transizione della domanda di alcune specie dal campo della medicina tradizionale a quello dei beni di lusso per classi abbienti,” ebbe a dire John Scanlon, il segretario generale del CITES all’epoca. La carne di selvaggina, che è stata a lungo una componente di base della dieta di molte fra le persone più povere del mondo, stava trasformandosi in bene di lusso per moderni consumatori - un bene “posizionale” che, allo stesso modo di una borsa di Louis Vuitton o un orologio Cartier, non è acquisito tanto per il suo scopo funzionale quanto come simbolo di identità, appartenenza sociale e status. Specie minacciate di estinzione vengono mangiate come gesto di consumismo estremo da uomini d’affari desiderosi di baldoria alcolica per creare e rinsaldare i rapporti di lavoro, e da famiglie abbienti desiderose di mostrare rispetto nei confronti di visitatori di riguardo; o da cittadini urbanizzati anelanti di riconnettersi con le loro radici rurali.

Una parte del motivo per cui i conservazionisti occidentali si aspetterebbero che i paesi in via di sviluppo con economie in fase di rapida espansione allentassero la morsa nei confronti delle specie minacciate è che sono convinti che i loro paesi di origine hanno fatto altrettanto in passato. Ma tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento i cacciatori commerciali di professione ancora rifornivano i cittadini Americani, in gran parte delle classi più agiate, con tartarughe palustri e anatre selvatiche anche se - e specialmente perché - le popolazioni di queste specie erano già in fase di decimazione avanzata. Il commercio si è allentato soltanto con l’avvento di leggi protezioniste fatte rispettare con impegno. Rosaleen Duffy, un’ecologa politica presso l’università di Sheffield, chiarisce che, comunque, il consumo di selvaggina non si è mai fermato; è solo mutato. Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito sono ancora importatori di spicco di prodotti derivanti dalla selvaggina: un sondaggio sugli acquisti effettuati su eBay ha infatti riscontrato che gli Stati Uniti sono l’approdo finale di più di due terzi del traffico mondiale di specie protette.

D’altro canto, anche il cibo di origine selvatica che rispetta leggi e normative riflette una transizione da fabbisogno energetico a consumo elitario. Uno studio del 2018 da parte di un team internazionale di scienziati esperti di pesca ha cercato di capire in quali mercati approdasse il pesce pescato in alto mare a giro per il mondo - cioè in acque al di fuori della giurisdizione nazionale di qualsiasi paese. I conservazionisti sospettavano che le acque internazionali fossero sottoposte ad uno sforzo di pesca eccessivo; ove i difensori della pesca commerciale rispondono che la loro attività aiuta a sfamare la gente del mondo.

Alla fine la ricerca ha dimostrato che il pescato variava da specie di grossa taglia, come tonni e pescespada (alcuni dei quali sono stati ridotti al 10%, o anche meno, della loro abbondanza originaria), ad un ventaglio di specie di pesci, seppie e altre creature marine di taglia minore. La maggior parte dei quali andava a soddisfare l’appetito di consumatori abbienti negli Stati Uniti, Unione Europea e Giappone. Alcune specie erano usate quasi esclusivamente come cibo per gli allevamenti di pesce e per gli animali da compagnia (di nuovo, in maggior parte nelle nazioni ricche); mentre altre erano trasformate nei cosiddetti “nutroceutici” finalizzati non certo a combattere la fame o le malattie ma a ottimizzare le performances di persone sane per permettere loro di raggiungere - come si dice oggi - una “super-forma”.

“Tutti noi consumiamo selvaggina in un modo o in un altro,” dice Duffy. “Mangiamo selvaggina, la indossiamo come vestiario e accessori, ne facciamo uso come medicine, e compriamo ornamenti della stessa origine.”

Le ragioni della scomparsa del manumea da Samoa sono invero meno collegabili a questo tipo di rapacità: l’animale non è più cacciato deliberatamente da decenni ma è ucciso come effetto collaterale non intenzionale. Sebbene non si possa negare che anche il manumea, ridotto a preda, possa all’occasione essere visto un dono intriso di fattori di prestigio ed identità. E il piccolo dodo è davvero sull’orlo - senza mezzi termini - dell’estinzione.

“Mi permetta di renderle maggiormente chiaro perché sia così difficile per la gente del posto di rifiutare un piatto a base di piccione,” mi disse Jesse Lee, un giovane chef con il pallino per il modo di mangiare tipico samoano. “E’ il piatto della memoria; è il non-plus-ultra di tutte le leccornie. E’ una specie di zuppa di pollo all’ennesima potenza.”

Eravamo seduti all’interno del suo ristorante a chilometro-zero, Mi Amor, in Apia, che profuma di foglie di lime, cocco, tonno e citronella fresca. Lee ha mangiato piccione solo poche volte in vita sua. In ognuno dei casi, è successo perché i suoi genitori - suo padre è un matai - li avevano ricevuti in dono. “E’ un segno di ossequio e riguardo.”

Quasi tutti i samoani con cui ho avuto modo di parlare hanno mangiato il piccione, ma è emerso un andamento chiaro: quanto spesso e quanto recentemente lo avevano mangiato tendeva ad essere correlato con il livello di affluenza, potere e status. Fiame Naomi Mata’afa in quanto a status sociale non è certo posizionata in basso a Samoa: non solo Fiame è vice primo ministro e il ministro delle risorse naturali e ambiente, ma ha anche un titolo di “alto matai” essendo la figlia dell’uomo le cui mani letteralmente abbassarono la bandiera coloniale per lanciare l’indipendenza di Samoa. (Da notare che a Samoa i titoli di matai sono usati al posto del cognome).

Fiame ha recentemente accettato di fare da portavoce per una nuova campagna per salvare il manumea condotta dalla Samoan Conservation Society e dal ministero che lei stessa dirige; nel documento strategico della campagna, applaude pubblicamente “tutti i samoani che hanno preso la decisione volontariamente di evitare di comprare, regalare o mangiare ogni tipo di piccione finché non saremo sicuri che il manumea è fuori pericolo.” Eppure quando le chiesi dove e quando avesse mangiato l’ultima volta il piccione, mi rispose con candore. “Probabilmente durante un incontro governativo. Circa un mese fa,” mi disse. “Il ministro che ce lo porta ha un ristorante, quindi di solito ci arriva già cotto.” Il ministro in questione è Sala Fata Pinati, ministro del turismo.

Similmente, Seumaloisalafai Afele Faiilagi, il cui ruolo è supervisionare la conservazione del manumea presso il ministero dell’ambiente, ammette che un tempo gli accadeva spesso di ricevere in regalo “un sacco di lupe” grazie a suo padre, un alto matai di Uafato - il villaggio dove io e Serra abbiamo cercato il manumea la prima volta. “Essendo una preda rara la gente ritiene che sia un dono particolarmente adatto per un alto matai” dice Seumaloisalafai. Il fatto è che alla fine dei conti tutto questo scambio di doni a Samoa si tramuta in una moltitudine non indifferente di piccioni sacrificati: il paese conta infatti 18,000 matai. Anche i pastori delle innumerevoli chiese poi ricevono il piccione in dono regolarmente - quando non lo richiedono espressamente ai fedeli come loro cibo prediletto. Come fa notare Stirnemann, i consumatori abbienti samoani non sono affatto comparabili alle elite globali a cui siamo avvezzi. “Non è cioè gente con villa e piscina, per intendersi, ma gente più simile a degli agiati della nostra medio-alta borghesia.”

Tu Alauni, una giovane donna cresciuta a Apia, mi ha riferito che l’unica volta che ha assaggiato il piccione fu quando sua madre, molto malata, aveva fatto in modo di comprare un singolo animale con la speranza che potesse migliorare il suo stato di salute. “Era davvero l’alimento più importante ai suoi tempi” mi spiega Alauni. Al momento si immaginò che la piccola porzione che sua madre aveva condiviso con lei sarebbe divenuta un’esperienza memorabile della sua vita - ancora di più adesso che Alauni ha visto un manumea dal vivo. Nel 2017 infatti un individuo si posò proprio vicino al limite esterno del terrazzo del suo posto di lavoro, il Forest Café, che si sporge su una gola ricoperta di foresta su un versante delle montagne che circondano la capitale. Alauni adesso si sente personalmente investita di responsabilità circa la sopravvivenza del manumea, e i proprietari del Café, che hanno anche loro visto l’uccello, per lo stesso motivo sono impegnati a riforestare i dintorni con alberi autoctoni. Eppure i cacciatori continuano a sparare cosi vicino alla loro proprietà che un giorno un uccello colpito dai pallini cascò, con un tonfo, diritto sul tetto del Café.

Di certo, i samoani indigenti hanno ragioni pratiche per mangiare pochi piccioni. Uno solo di essi costa infatti 15 tala - una quantità di soldi sufficiente per sfamare una famiglia intera per una settimana. Mentre con l’equivalente del prezzo di una scatola di cartucce, 65 tala, si può comprare quattro camice, tre zaini per la scuola dei bambini, e 13 polli interi. I cacciatori con cui ho parlato hanno rivelato che non possono permettersi nemmeno di comprare le cartucce e che se le devono fare comprare dai committenti-acquirenti abbienti.

A onor del vero, cacciare piccioni è illegale a Samoa da almeno 25 anni. La legge però non è stata mai fatta rispettare e la maggior parte dei samoani la considera non operativa al punto che parlano apertamente di cacciare e mangiare piccioni. Soltanto una volta ho riscontrato degli scrupoli al riguardo: nonostante la rivelazione da parte di un professore che sosteneva di aver mangiato lupe ad un resort solo la settimana prima, lo staff di quello stesso resort, una volta consultato, ha negato strenuamente sostenendo il contrario.

Se è vero che il piccione selvatico è considerato come un alimento prelibato a Samoa, è anche vero che nessuno ha un reale bisogno di mangiarlo. Seduto presso il ristorante Mi Amor, con le sue porte e finestre aperte nel caldo della sera, Lee mi disse che la percezione del piccione selvatico come qualcosa da essere consumato più che mangiato, potrebbe rivelarsi un giorno come la salvezza stessa per il manumea. “In effetti la prossima generazione di samoani non sembra più molto interessata al cibo. Sono più interessati al prossimo modello di iPhone o Samsung - o qualunque altra nuova tecnologia che verrà fuori,” disse Lee. “Se la nuova generazione preferisce ricevere in dono un nuovo iPhone, o delle scarpe, i piccioni probabilmente ne trarranno benefici.”

Naturalmente, affinché questa profezia si avveri, il manumea dovrà riuscire a sopravvivere fino alla prossima generazione - il che è una scommessa alquanto incerta.

Serra mi confida che per cercare la più rara delle rare creature alate non serve solo perseveranza - ma anche un po’ di fede. Dopo giorni di vane escursioni attraverso le foreste più selvagge di Samoa, penso di capire cosa vuole dire. L’idea che un manumea possa apparire proprio dietro il prossimo albero comincia ad apparire ridicola, come se si stesse cercando di scorgere delle stelle cadenti attraverso dei varchi risicati di un cielo notturno coperto. Ogni secondo diventa essenziale alla ricerca - non si riesce neppure a deviare un attimo dal sentiero per un bisogno fisiologico senza continuare a scrutare intorno con occhi attenti - ma allo stesso tempo senza speranza. Perseverare, allora, richiede fede, o ossessione. Il libro favorito di Serra, come rivela, è Moby Dick.

Quindi ascendiamo per ore dentro la foresta di nebbia sopra il villaggio di Aopo, situato sul versante nord di Savaii. La giungla è viva, palpitante di creature alate, e in quel solo giorno osserviamo o udiamo quasi tutte le specie forestali della risicata guida di birdwatching di Samoa. “Tutte eccetto una,” dice Serra, sulla via del ritorno mentre si scende sotto una pioggia torrenziale e calda come sangue. “Forse stiamo documentando l’estinzione.”

L’estinzione. La maggior parte di noi comprende questo concetto in teoria e per astratto. Per Serra è una cosa personale. Lui, che attualmente vive a Firenze, Italia, si trasferì a Samoa nel 2012 per condurre dei progetti di conservazione nel Sud del Pacifico per conto del programma ambiente dell’ONU e della global environmental facility. Dopo quattro anni però ritornò “sul campo” come ricercatore freelance lavorando con, tra gli altri, il ministero dell’ambiente di Samoa. Ma la sua immersione nel campo della specie a grave rischio di estinzione cominciò circa 20 anni prima con l’ibis eremita orientale quando nella steppa siriana si mise sulle tracce di avvistamenti fantasma narrati dai nomadi beduini e dai cacciatori di Palmira - tracce che lo condussero infine ad una colonia dimenticata del raro ibis.

Al tempo, si riteneva che il nero uccello simile ad un gru - un tempo diffuso attraverso tutto il nord Africa, l’Europa sud-orientale e il Vicino Oriente - nidificasse ormai solo in Marocco; non c’era stata più infatti una singola osservazione verificata della specie in tutto il Vicino Oriente dagli anni Trenta. Serra ed i suoi colleghi beduini e palmiriani rinvenirono così gli ultimi sette individui di quella iconica stirpe raffigurata nei geroglifici egizi. Per poi documentare impotenti la scomparsa graduale di questi stessi individui nel corso di quasi dieci anni, in maggior parte a causa della caccia durante la migrazione bi-annuale lungo il Mar Rosso.

Serra non nasconde che l’idea che possa assistere ad un’altra estinzione - l’estinzione globale del manumea - gli pesa non poco. E comunque non sa neanche dove cercarlo più, davvero, questo volatile. Resoconti contraddittori sono stati la norma sin dalle prime osservazioni scritte. A volte il manumea è descritto come una specie delle alte foreste di nebbia, altre volte delle pianure costiere; come sembra dimostrare il fatto che l’ultima fotografia conosciuta della specie è stata scattata nel 2013, nel parcheggio di un resort vicino alla città più grande di Savaii. Alcuni hanno sostenuto che il manumea non disdegni, come usava fare suo cugino il dodo, becchettare in terra; mentre altri invece sono convinti che non abbandoni mai la volta della foresta pluviale. “Chi lo sa?” dice Serra. “Solo speculazioni.”

Siccome il manumea è difficile ad avvistarsi, le stime su quanti ne rimangano in natura si sono basate sopratutto sul riconoscimento del richiamo. Ma quando Serra mise alla prova dieci cacciatori esperti locali di piccioni e colombi, scoprì che perfino la maggior parte di loro non riusciva a identificare in maniera consistente il manumea a partire dal richiamo. (Il solo richiamo sospettato come riconducibile al manumea consiste in un suono che sale e scende dolcemente - mmmMMMmmm - come il richiamo di una mucca in una mattina nebbiosa; si ipotizza che sia leggermente più basso di tono e differente nella frequenza di ripetizione del molto simile richiamo prodotto da lupe). L’idea che ne rimangano ancora 200 individui in Samoa, dice Serra, è poco più di un tirare ad indovinare. Il numero potrebbe essere più alto, o molto, molto più basso. “Potremmo, in effetti, stare cercando gli ultimi 15 o 20 animali rimasti.”

Se il manumea si estingue, l’ultimo potrebbe finire i suoi giorni così: a caccia quando aveva 17 anni, un uomo di nome Norman Paul, individuò la silhouette di un piccione posato su un cavo telefonico e gli sparò. Rimase scosso nello scoprire che ciò che aveva tirato giù non era un lupe ma un uccello che non aveva mai visto prima. Immediatamente si pentì del suo atto - qualcosa di speciale si era spento a causa sua. Oggi, 45 anni dopo, gestisce un hotel sul versante della montagna dove sparò a quell’uccello. Si chiama Le Manumea, in memoriam, e i turisti vi si ritrovano in un’atmosfera tradizionale polinesiana, inconsapevoli della malinconia aleggiante intorno al nome del resort. Un cartello all’entrata promette happy hour tutto il giorno.

Sulla base di avvistamenti confermati, Serra stima che una persona in cerca del manumea possa aspettarsi di farcela solo ogni tre-quattro anni. “Anche per il manumea, si sta creando una sindrome tipo quella emersa per la tigre di Tasmania,” dice, riferendosi al marsupiale dall’aspetto lupesco che probabilmente si estinse in Tasmania nel 1936, ma che è ancora avvistato di tanto in tanto, sistematicamente in modo non verificato e senza prove, in qualche angolo sperduto e selvaggio dell’isola australe. “Come la gente diventa consapevole del fascino del manumea, comincia a desiderare fortemente di vederlo.” Una stazione radio una volta contattò il ministero dell’ambiente per riportare che un ascoltatore aveva portato un manumea in studio. Risultò essere un fiaui, ovvero il piccione dalle guance bianche, una specie spesso confusa con il manumea. Io e Serra ne abbiamo visti un sacco durante la nostra ricerca.

La prima campagna per salvare il manumea fu lanciata nel 1993. Era finanziata da RARE, un’organizzazione no-profit americana che promuove l’orgoglio locale nei confronti delle specie animali minacciate, e che utilizzò un approccio di coinvolgimento dalla base - incluso incontri con pupazzi giganti a forma di manumea nelle scuole e sermoni a favore del manumea confezionati per le tante, tante chiese di Samoa - condotto dallo staff governativo del ministero dell’ambiente. Quattordici anni sono passati prima che il successivo significativo sforzo di conservazione venisse realizzato, seguito anche quest’ultimo, a sua volta, da un’altra lunga stasi.

Lo sforzo attuale per salvare il manumea, dunque, ricomincia quasi da zero. Samoa ha conservazionisti dedicati (il capo della divisione parchi e riserve del ministero dell’ambiente, Moeumu Uili, si mise a piangere quando mi raccontò del momento in cui riuscì a fotografare il manumea nel 2013), ma soldi e risorse sono difficili da reperire in una nazione con la stessa popolazione della cittadina di Yonkers, nello stato di New York - e vieppiù in un mondo pieno di specie minacciate di estinzione, tutte con un disperato bisogno di sostegno finanziario. Questa volta i partners internazionali includono BirdLife, lo zoo di Auckland e il governo neozelandese.

La caccia non è certamente l’unico problema che minaccia la sopravvivenza del nostro uccello. La maggior parte delle osservazioni indicano infatti che il manumea preferisce le foreste planiziali, l’80% delle quali sono state tagliate per il commercio del legname o spianate per fare posto a infrastrutture, villaggi o piantagioni familiari. Poi ci sono i predatori terrestri invasivi come ratti e gatti che includono il manumea nel loro menu (i ratti presumibilmente mirando alle sue uova, ndr). Le prime osservazioni documentate del manumea in natura, annotate meravigliosamente in un corsivo veloce dal naturalista e esploratore Titian Peale nei tardi anni del 1840, furono anche le prime a anticipare una possibile prossima estinzione dell’uccello:

“Qualche anno indietro è emersa la passione per i gatti a Samoa, i quali sono stati richiesti e ottenuti in tutti i modi possibili dalle navi baleniere di passaggio presso le isole….Pussy (il nome con cui i Polinesiani di solito battezzarono il gatto) sviluppò subito un certo gusto per il manu-mea, invece che per la yam e il taro, ovvero il cibo principale degli isolani (dei tuberi, ndr), e si inoltrò quindi sui versanti delle montagne alla sua ricerca. Lassù i felini proliferarono e si inselvatichirono, vivendo a spese del nostro didunculus, o piccolo dodo, il manu-mea dei nativi, al punto che, si prevede, in pochi anni questi cesserà di essere conosciuto.”

Il manumea quindi è in realtà sopravvissuto ben 170 anni in più rispetto alle previsioni di Peale - ma solo per un pelo. Nel 2014, il suo stato di conservazione globale è stato passato di livello da “minacciato di estinzione” a “gravemente minacciato di estinzione” (il livello più alto di minaccia secondo l’autorità internazionale, la IUCN, oltre il quale una specie è dichiarata estinta in natura, ndr); il che significa che senza azioni di conservazione intensive e mirate non si riuscirà a evitarne l’estinzione.

Il team internazionale che si è riunito a Samoa nell’Ottobre 2019 per decidere su quali azioni puntare - tutte all’improvviso posticipate nel Novembre successivo a causa di un’ondata mortale di morbillo che ha investito l’arcipelago, in seguito alla quale è stata dichiarata l’emergenza nazionale. Attualmente, la più alta priorità per il governo di Samoa in relazione al recupero-salvataggio del manumea, secondo Seumaloisalafai, è quella di perseguire la ricerca di Serra sul richiamo dell’uccello. Se l’”impronta vocale” del manumea potesse essere identificata e riconosciuta in maniera affidabile da quella di lupe, attraverso l’analisi sonografica digitale, gli scienziati potrebbero distribuire audio registratori automatici nelle foreste pluviali delle due maggiori isole dell’arcipelago e raccogliere dati dettagliati su dove i manumea ancora sopravvivono e quanti ne rimangono.

Altrimenti, parimenti importante per il piano di recupero del manumea è sviluppare e supportare un network di villaggi “amici del manumea” (ce ne sono già sei) che si impegnino a proteggere le rispettive foreste ancestrali vietando la caccia al piccione. Lo zoo di Auckland, nel mentre, è pronto a fornire formazione e supporto per dei programmi di derattizzazione nelle foreste dei villaggi. Lo zoo studierà anche la fattibilità della realizzazione di una struttura per la riproduzione in cattività del manumea a Samoa, la sfida principale rimanendo il fatto che, come un ornitologo americano ebbe recentemente a dire, “la difficoltà durante tutto il secolo attuale è stato di rinvenire anche solo un singolo rappresentante della specie.”

La caccia al piccione in realtà è un problema che potrebbe essere affrontato relativamente in economia e immediatamente - almeno in teoria. Con l’epidemia di morbillo terminata da poco, una campagna di sensibilizzazione che comincia in Aprile attirerà dapprima l’attenzione sulla situazione critica del manumea per poi esortare i samoani a smettere di cacciare, commerciare e mangiare piccioni. L’obbiettivo è di ridurre di un quarto il consumo di piccione entro quest’anno. “Non credo che l’uccello si salverà solo affrontando la questione della caccia,” confidò James Atherton, samoano di origine britannica, che ha contribuito a fondare la Samoa Conservation Society sette anni fa, “ma è anche l’unica questione su cui ogni samoano potrebbe impegnarsi direttamente per salvare il manumea.”

E comunque, chiedere ai samoani di smettere di mangiare piccione è una cosa talmente complessa quanto esortare i consumatori benestanti del mondo di smettere di mangiare il loro pesce e frutti di mare preferiti. Seiuli Vaifou Aloalii Temese, capo del Centre for Samoan Studies presso la National University of Samoa, mi aiutò a comprendere meglio il carico di significati associato ai piccioni nella cultura samoana. Mi parlò di memorie di suo padre il quale, quando lei era una bambina, andava a caccia di lupe nei giorni precedenti al White Sunday, raramente dimenticando di regalarne almeno uno al pastore prima di cucinare gli altri. Condividevano quella pietanza ricercata con i vicini che non erano riusciti ad accaparrarsi alcun lupe, servendo le porzioni più generose ai matai. Riferimenti alla caccia al piccione sono finemente integrati nella tradizione oratoria della lingua samoana. Un incontro tra capi può essere avviato da una frase del tipo Ua malumaunu le fogatia, che significa “il cumulo a stella è sacro grazie ai lupe che vi si raccolgono sopra,”; mentre una donna attraente può essere tratteggiata, nella conversazione di tutti i giorni, come una “lupe.”

“Si sentono molto samoani quando mangiano lupe. La carne poi è particolarmente gustosa. Quei modi di dire raffinati riecheggiano nella loro mente mentre mangiano lupe,” disse Seiuli Vaifou. “Per questo la caccia a lupe non è cosa da poco per la cultura samoana.”

Ho sentito anche un’altra storia che chiarisce la questione in maniera più sfrontata. In seguito ad un incontro nell’ambito della campagna per salvare il manumea, un conservazionista visitatore, sentendosi ottimista circa il futuro dell’uccello, si recò ad un mercato vicino e si intrattenne a parlare con un venditore circa il piano governativo di cercare di scoraggiare la gente dal mangiare i piccioni. “Ma,” il venditore disse incredulo, “è come cocaina per alcune persone!”

Io e Serra forse di sfuggita, alla fine, abbiamo visto il manumea. Viaggiammo verso il villaggio di Tafua-tai nell’isola di Savaii, un villaggio dipinto con colori brillanti, sistemato ai piedi di una sella color smeraldo di un cratere vulcanico. Come racconta il mito, l’intero villaggio fu vinto dai discendenti degli attuali abitanti - grazie a una gara di cattura di piccioni.

Tafua-tai offre ragioni per essere ottimisti. Innanzitutto, è un villaggio amico del manumea. Senza contare che la famosa foto dell’uccello fu scattata nel 2013 proprio lì vicino. Ci accompagna Tuluiga Ulu Anoa’i, il cui nonno, nella sua veste di matai, nei tardi anni Ottanta convinse la sua comunità a proteggere la loro foresta ancestrale da un progetto di “sviluppo”. Ulu Anoa’i, che mostra un certo interesse per la fauna della foresta, potrebbe essere una delle ultime persone ad aver avvistato il manumea - due mesi fa, proprio sull’orlo del cratere. Siccome non ne aveva mai visto uno prima, tuttavia, non può esserne certa.

Durante una lunga escursione al vulcano, vediamo cose meravigliose - la colomba multi-colore è bella quanto suggerisce il suo nome - ma, purtroppo, neanche l’ombra del nostro piccolo dodo. Poi Ulu Anoa’i ci porta ad ascoltare le incredibili affermazioni di suo zio, Tiaalii Matauaina. E’ un barile d’uomo, letteralmente, con uno sguardo allargato e i tratti del viso marcati simili a quelli di un Rodney Dangerfield con i baffi. Seduto di fronte a casa sua con il suo sarong lavalava giallo e la sua maglietta polo, ci racconta che vede il manumea frequentemente nella foresta vicino alle sue piantagioni - qualche volta perfino nel suo giardino. Il suo avvistamento più recente risale a 3-4 giorni prima. “Se uccido un manumea, ve lo regalo,” dice. E’ difficile stabilire se stia scherzando.

Tiaalii acconsente a portarci nei posti dove avvista il manumea più spesso. Prima però dobbiamo aspettare che passi il caldo del primo pomeriggio. “La luce della prima mattina, nel suo splendore, qui è magnifica; è come l’alba della creazione,” dice Serra. “A metà giornata invece diventa accecante e ostile. E’ l’inferno.” Infine, con il sole che si abbassa sull’orizzonte, arriva finalmente l’ora del birdwatching: come cominciamo a camminare, i tratti di foresta ai lati della strada risuonano di canti e del tubeggiare di piccioni e colombe. A un certo punto Tiaalii crede di sentire il richiamo del manumea, ma non è sicuro. Infine, giriamo su un sentiero stretto attraverso un delirio di verde.

“Un giorno qui, quattro, cinque manumea,” dice Tiaalii, gesticolando come se le sue grosse mani fossero uccelli che fuoriescono dalla vegetazione. Procediamo verso un albero torreggiante sul fianco di una collina forestata.

“manumea!” grida d’un tratto Tiaalii. La sua potente mano destra mi preleva per la collottola dirigendo la mia testa verso un punto nel cielo. Dove un uccello della taglia di un piccione sfreccia sopra le nostre teste, una silhouette scura contro l’azzurro. Un istante dopo è già sparito oltre l’orizzonte prossimo della vegetazione lussureggiante.

Serra, sopravvenendo di corsa dalle retrovie, riesce a carpire solo una breve occhiata. “Che uccello difficile,” dice e procede a chiedere a Tiaalii dettagli su ciò che ha visto. “Il colore!” dice Tiaalii, con gli occhi fuori dalle orbite. “Blu, rosso e un po’ di nero!” Con le sue mani mima un grosso becco uncinato che si apre e chiude. “Psh psh psh.”

Eccolo quà, dunque: un esperto locale con l’occhio allenato per i volatili che trova il manumea per noi. Anche se è possibile, d’altronde, che desiderasse così ardentemente di essere proprio lui quello in grado di aiutarci a trovare l’uccello, o che percepisse il nostro desiderio a tal punto (insieme al veloce avvicinarsi del crepuscolo) da anelare lui stesso che ritornassimo a casa felici quella sera. In effetti si fa un po’ di fatica ad immaginare che Tiaalii avesse avuto modo, nel brevissimo lasso di tempo in cui l’uccello è schizzato via dalla chioma dell’albero ed ha incrociato in volo come un dardo sopra le nostre teste, di identificare i colori ed i dettagli che ha affermato di aver visto. Anche lui, del resto, non sembra di essere molto convinto.

Vedere un manumea, o salvarne uno, è avvolto nella memoria e nel desiderio. “Il mio cervello sinistro non gli crede, ma quello destro smania invece di credergli,” dice Serra. Non se la sente, tuttavia, di aggiungere questa osservazione nella sua lista di identificazioni di manumea categorizzate come probabili.

Qualche giorno dopo, la nostra ricerca ormai conclusa, siamo seduti con una birra in mano al limite del porto di Apia con James Atherton della Samoa Conservation Society. Ripercorrendo con la mente i nostri sforzi, Serra osserva che sono stati “abbastanza rappresentativi” e anche “alquanto deprimenti”.

“Questo volatile,” dice Serra, “è quasi impossibile da avvistare.” “Beh, è proprio per questo che stiamo lavorando sodo per cercare di salvare questa creatura così rara” ribatte Atherton. Serra sposta lentamente lo sguardo lontano, dove le onde oceaniche si frangono sulla barriera corallina sul far del tramonto, con un sordo e costante ruggito, come fosse il motore del mondo. “Penso solo che dovremmo affrettarci un po’,” aggiunge laconicamente.

Tratto da The Atlantic, per gentile concessione di J.B. McKinnon, traduzione di Gianluca Serra.