11
Oct
2019
12:03 PM

LA SESTA ONDATA DI ESTINZIONI DI MASSA: PERCHE’ DOVREBBE IMPORTARCENE QUALCOSA

Editoriale pubblicato su La Stampa l'11 Ottobre 2019

L’imprimatur scientifico, calato tra i nostri capi e colli soltanto tre mesi fa, conferma che quella che stiamo vivendo è solo l’inizio di un’ondata di ecocidi di massa di vita non umana sul pianeta Terra; un processo che potrebbe spazzare via un milione di specie di piante e animali selvatici dal nostro pianeta nel breve periodo (si parla di decine di anni).

Questa conclusione terrificante è supportata da circa quindici mila articoli scientifici (!), come si può leggere direttamente nel dossier prodotto dall’agenzia indipendente delle Nazioni Unite, l’Intergovernmental Science-Policy Platform for Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES).

Quindi, noi attivisti, non eravamo così “catastrofisti” nelle decadi passate quando si facevano campagne per proteggere la natura e si suonavano campanelli di allarme di tanto in quando in relazione a singole specie a rischio di estinzione.

Catastrofismo o realismo?

Certamente questo non è quello che avevo sognato da bambino innamorato di fauna e natura. Ma come avrei mai potuto immaginare allora, negli anni Settanta, che durante i miei primi 50 anni di vita avrei assistito al raddoppio (letteralmente) della popolazione umana globale e alla quadruplicazione dell’economia mondiale; mentre al contempo - e non certo per coincidenza - le popolazioni di fauna selvatica si riducevano del 60%?

Come avrei potuto mai immaginare allora che avrei personalmente vissuto e documentato, come conservazionista da campo, proprio estinzioni di specie animali negli stessi luoghi dove avvenivano?

E adesso quindi abbiamo la certificazione scientifica della crisi di estinzione di massa in atto, che implicitamente ammette che la Convenzione per la Biodiversità, firmata dalla maggioranza dei paesi del mondo in seguito al summit di Rio dell’ONU nel 1992, ha fallito. Secondo il classico copione “del troppo poco e troppo tardi”.

Ove per decenni, noi ecologisti e ambientalisti (catastrofisti) abbiamo sostenuto (preoccupati) che non si sarebbe realizzato e conseguito abbastanza sotto l’attuale sistema socio-economico consumistico ed ecologicamente insostenibile. E il dossier dell’IPBES conferma questo punto di vista.

Per un naturalista come me, questo non è certo il miglior periodo storico per essere venuto al mondo. D’altro canto sono consapevole che se ho avuto l’opportunità di studiare e seguire le mie passioni e interessi questo lo devo in gran parte anche allo sviluppo socio-economico che ha seguito in Europa la seconda guerra mondiale.

In effetti nessun ambientalista pragmatico e serio argomenterebbe il fatto che il progresso socio-economico non sia necessario: abbiamo invece sostenuto per decadi che un nuovo paradigma socio-economico era auspicabile basato su principi di sostenibilità ecologica ed etica invece che su assunzioni magiche come i principi del laissez faire e della crescita economica infinita, derivanti dalla ideologia dominante del mercato libero.

Spostamento di paradigma socio-economico che è oggi giorno sempre più supportato e riconosciuto da economisti autorevoli -meglio tardi che mai.

Un processo storico

A volte trovo sollievo nell’esercitare un po’ di buon relativismo storico e biologico riflettendo sui massimi sistemi. Quello a cui stiamo assistendo oggigiorno è in effetti la fase finale di un processo che è cominciato 70mila anni fa, quando dei cambiamenti ancora sconosciuti nel “cablaggio” dei cervelli umani ha dato luogo alla cosiddetta “rivoluzione cognitiva”.

Da allora quella che era stata una specie dal profilo ecologico abbastanza dimesso, che si attestava cioè a livelli medio-bassi della catena alimentare, gradualmente ha cominciato ad avanzato di grado arrivando a diventare un temuto predatore (top predator) capace di uccidere prede molto più grandi della sua taglia.

Grazie alle sue elevate capacità di comunicazione e organizzazione, Homo sapiens iniziò così l’epico e relativamente rapido processo di colonizzazione e invasione del pianeta intero, iniziando a causare al contempo la sparizione di altre specie - spesso attraverso fenomeni di estinzione di massa. Cosi che, in un tempo relativamente breve, divenne il serial killer ecologico numero uno del pianeta.

Già 45.000 anni fa infatti i sapiens, sbarcando in Australia, causarono un disastro ecologico che spazzò via la maggior parte dei grandi marsupiali predatori. Destini simili furono riservati alla megafauna del Nord America (16.000 anni fa), del Madagascar e della Nuova Zelanda (solo poche centinaia di anni fa in entrambi i casi).

Senza contare che, in parallelo alla avanzata dei sapiens, tutte le altre specie umane (cioè di ominidi, appartenenti al genere Homo, i nostri parenti più stretti) anche loro scomparvero. Solo una coincidenza? (Ebbene si, probabilmente abbiamo causato anche estinzioni di specie umane….).

Con l’avvento dell’agricoltura e delle religioni monoteistiche circa 10mila anni fa, la visione antropocentrica del pianeta viene sacralizzata e istituzionalizzata: da allora ci siamo definitivamente convinti che non eravamo più parte della natura, che eravamo di un livello superiore; e che gli altri animali e piante erano state “create” per il nostro uso e consumo.

Tre ondate ecocide

Durante gli ultimi duecento anni ha avuto luogo un’improvvisa impennata nel tasso di consumo di natura da parte dei sapiens a seguito delle rivoluzioni scientifiche ed industriali, l’imperialismo dei paesi europei e la simultanea ascesa dell’economia capitalistica. Il boom della popolazione umana e del mercato libero globale delle ultime cinque decadi hanno infine messo in ginocchio gli ecosistemi e la fauna selvatica del pianeta.

Quindi in sintesi ci sono stati tre impulsi ecocidi direttamente imputabili all’inesorabile espansione della popolazione sapiens: il primo provocato durante l’epica colonizzazione dell’intero pianeta, a piedi o su natanti artigianali, da parte dei sapiens cacciatori-raccoglitori; il secondo provocato dalla rivoluzione agricola; e il terzo e ultimo è quello attuale che si sta svolgendo di fronte ai nostri occhi rassegnati.

Come risultato, mentre 10mila anna fa la fauna selvatica rappresentava il 99% dell’intera biomassa del pianeta, oggi si è ridotta ad appena l’1%; il resto della biomassa attuale (il 99%) è rappresentato dagli umani e dai loro animali da macello e piante da coltivazione.

Dovremmo essere elettrizzati di stare vivendo un’altro momento storico della evoluzione di Homo sapiens? Il problema è che siamo attualmente sotto un ultimatum dell’ONU: solo l’anno scorso scienziati di punta che studiano la crisi climatica ci hanno informato che solo 12 anni sono stati stimati per evitare una catastrofe sul pianeta che potrebbe mettere a rischio la civiltà umana stessa.

Quindi, a stretto giro della minaccia di auto-distruzione nucleare di qualche decennio fa, su di noi incombe adesso un’altra minaccia non meno grave.

Un cambiamento trasformativo

“Se c’è una lezione importante che ho imparato dalla mia esperienza sulla prima linea della natura devastata è che la virtuosità individuale -o quella dei singoli progetti- non fa grande differenza nella realtà della società di massa odierna né possono avere un impatto significativo a livello globale.

Non almeno sotto il dominante sistema socio-economico attuale, intendo. Dove per decadi l’enfasi sulla virtuosità individuale (usa la bicicletta invece della macchina, raccogli la spazzatura sulla spiaggia, chiudi le luci quando non servono ecc.) è stato il principale leit motif dell’impegno ambientalista.

Al contrario, a questo punto “cambiamenti trasformativi” sono ciò che servono per incidere sull’attuale gravissima crisi ecologica, un termine usato appropriatamente dal menzionato dossier dell’IPBES.

Dato il fatto che fino ad ora governi e organizzazioni internazionali (strettamente controllati dalle élite economiche e finanziarie globali dipendenti dagli idrocarburi fossili) non hanno mostrato alcun segno di consapevolezza né hanno iniziato un percorso di riforme appropriato alla scala del problema, l’unica speranza rimasta risiede in un sollevamento globale di massa promosso da movimenti popolari che diano l’impulso necessario alla politica per attuare le riforme necessarie. Prima che sia davvero troppo tardi (e sperando che non lo sia già).

Cosa serve è un programma di riforme globali di ampio respiro - un vero e proprio “new deal verde”- focalizzato sia sulla limitazione del consumo delle risorse, sia sul contenimento della crescita demografica mondiale. Impegnarsi su uno solo di questi due fronti non sarà sufficiente. (Certo, i paesi industrializzati, guarda caso, tendono sistematicamente a vedere solo il secondo problema, rimuovendo il primo).

Greta Tunberg e l’attuale movimento globale degli studenti dello sciopero climatico sono un raggio di speranza, come pure lo è il Movimento della Ribellione contro l’Estinzione. Non posso credere ai miei occhi: le “nuove generazioni”, tanto menzionate nelle decadi passate da noi attivisti finalmente sono cresciute e scendono in piazza con le loro gambe e i loro cervelli. Davvero un raggio di luce commovente-ma hanno bisogno del nostro pieno supporto.

Una domanda cruciale

Per creare una consapevolezza di massa critica a livello globale, c’è ancora una domanda importante a cui rispondere: perché dovremmo conservare cosa è rimasto degli ecosistemi selvatici e delle specie di fauna e flora del nostro pianeta?

Questa è una domanda a cui dovremmo essere pronti a rispondere chiaramente, specialmente considerando che la maggior parte della popolazione umana mondiale vive oggigiorno nei centri urbani, sono inconsapevoli di questioni ecologiche e completamente disconnessi dalla natura - e quindi non apprezzano in pieno quanto la nostra sopravvivenza come specie sia ancora profondamente dipendente da ecosistemi e natura.

C’è stato un dibattito recentemente stimolato da un articolo provocatorio scritto dal biologo Alexander Pyron che in sintesi sostiene che non dovremmo perdere troppo tempo per salvare ecosistemi e specie a meno che non ne abbiamo direttamente bisogno.

Ma una delle lezioni più importanti derivanti dalla ecologia e dalle scienze della vita è che tutto è interconnesso sul pianeta in modi di cui siamo appena consapevoli. Come si potrebbe infatti stabilire per certo che un dato ecosistema o specie non sono importanti per la vita sulla Terra?

Specialmente considerando che la nostra conoscenza è così superficiale e lacunosa in termini di processi ecologici, ecosistemi e specie. Pensate che il dr Pyron accetterebbe forse di volare su un aereo da cui alcuni bulloni “secondari” fossero stati rimossi dalla compagnia aerea, poco prima del decollo, per risparmiare sul costo del volo?

Risposte

Dovremmo avere cura e preoccuparci della natura e gli animali semplicemente perché ne siamo ancora parte integrante e perché abbiamo ancora bisogno di ecosistemi funzionali intorno a noi per soddisfare necessità vitali come avere a disposizione aria e acqua puliti e suolo fertile; e per ottenere nutrienti di ogni tipo, come pure il cibo e la conoscenza scientifica (tendiamo a dimenticare che la maggior parte delle medicine che usiamo di routine nella moderna medicina sono state scoperte grazie allo studio dei segreti della natura).

Senza contare che l’importanza di avere natura e ambiente in salute intorno a noi ha implicazioni spirituali, estetiche e psicologiche per il nostro benessere che stiamo soltanto ora cominciando a comprendere (vedi psicologia della conservazione).

Forse, la cosa più importante, dovremmo essere profondamente preoccupati (empatici) verso il futuro delle Greta Thunbergs del mondo - e cioè dei nostri figli e nipoti: come misura di buon senso, decenza e precauzione dovremmo lasciare loro un pianeta che sia ecologicamente funzionale e vivo. Questo appare come un dovere etico fondamentale e ineludibile.

Non facciamoci incantare ancora dal mito e dagli specchietti per allodole degli utopici delle high-tech, posseduti dal loro tipico delirio di onnipotenza e pronti a promettere che ci salveranno da qualsiasi pasticcio.

La verità è che siamo ancora neanche lontanamente a conoscenza di come affrontare problemi complessi relativi all’equilibrio e funzionalità dei grandi sistemi di supporto della vita sulla terra; l’approccio degli utopici high-tech in questi campi e le loro proposte appaiono oltremodo ingenue e pericolosamente riduzioniste.

L’economia è senza dubbio importante, è anche questa collegabile alla nostra sopravvivenza come specie. Ma la sua formulazione e realizzazione come si è svolta negli scorsi due secoli ci ha portati su una strada senza ritorno, pericolosa per la vita stessa sul pianeta.

Un po’ di buon senso

In altre parole, l’economia, per essere sostenibile e duratura per l’intera umanità oggi giorno, dovrebbe essere basata sui principi ecologici più elementari su cui la vita sulla Terra si basa. Queste sono semplici regole di buon senso. Perfino un albero o un riccio di mare potrebbe avere la percezione che il nostro pianeta non può farcela a sostenere dieci miliardi di bipedi, ognuno con il sogno americano stampato nella mente.

La crescita economica infinita è uno slogan magico inventato da economisti e capitalisti positivisti ed euforici. Nello spazio di un secolo questo slogan si è trasformato in una nozione arcaica e pericolosa. E’ tempo di svegliarsi per confrontarsi con la realtà della vita sul pianeta.

Dopotutto, non esiste alcunché di infinito nell’intera galassia!